Toccante testimonianza al «Medici» di Rocco Mangiardi, l'imprenditore calabrese che non si piegò al pizzo

«Il nostro dito in un'aula di tribunale è più potente delle loro pistole. I mafiosi non si aspettano che tu vada a denunciarli. Pensano di farti paura e quando in quell'aula li guardi in faccia e li accusi non sanno dove nascondersi. Sono solo dei vigliacchi». Rocco Mangiardi, il primo imprenditore calabrese che nel 2006, nella sua Lamezia Terme, in terra di 'ndrangheta, ebbe per primo il coraggio di accusare pubblicamente i suoi estorsori, tra cui Pasquale Giampà, a capo dell'omonima cosca, è un uomo sulla sessantina, pacato e affabile, capace di far capire solo con pochi gesti tutta la potenza che si nasconde dietro un semplice no. Per questo, la sua testimonianza, arrivata anche a Legnago grazie ad Avviso pubblico - l'associazione di enti locali e Regioni per la formazione civile contro le mafie - ha centrato il segno sia nell'incontro con la cittadinanza di giovedì sera in sala civica, sia ieri mattina all'istituto Medici di Porto. Qui ad incontrare l'imprenditore sono stati gli allievi di due classi quarte, impegnate in un progetto regionale legato alla giornata del 21 marzo in ricordo di tutte le vittime di mafia, per il quale il Medici è stato selezionato con altre 14 scuole del Veneto. In entrambi gli appuntamenti, ad introdurre Mangiardi è stato Roberto Fasoli, referente per il Coordinamento delle Regioni di Avviso Pubblico, che ha voluto sottolineare come il problema delle mafie non sia qualcosa che riguarda solo il Sud, «ma anche il Veneto, diventata, come hanno dimostrato diversi arresti, la "lavatrice" dei soldi dei mafiosi». Al Medici, dopo un breve intervento del vicesindaco Simone Pernechele, Mangiardi è riuscito a catturare l'attenzione dei ragazzi e a far capire loro, prima di qualsiasi altra cosa, come la «legalità non si insegna, ma si consegna». Ed è appunto questo che fa l'imprenditore quando racconta agli studenti di quella volta che «vennero la prima volta nella mia azienda, per spaventarmi, per minacciare me e la mia famiglia, se non avessi dato a "zio Pasquale" ciò che chiedeva: 1.200 euro al mese per non incendiarmi il magazzino». «Tornai a casa da mia moglie e dai miei tre figli», ha aggiunto, «e mi bastò guardare gli occhi di mia figlia maggiore per capire che mai e poi mai avrei dovuto piegarmi agli estorsori». «Non sono un uomo coraggioso, tanto meno un eroe», ha concluso, «ma anche se vivo sotto scorta sono un uomo libero. Libero soprattutto dalle catene dei mafiosi».

Elisabetta Papa, L'Arena, sabato 27 gennaio 2018 PROVINCIA, pagina 37

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