«Sono due i principi fondamentali che mio padre, con la sua esperienza, mi ha insegnato. Ovvero la libertà e la responsabilità». Sono passati quasi 40 anni dall'11 luglio 1979, giorno in cui, a Milano, il killer italoamericano William Aricò, mafioso ingaggiato dal banchiere Michele Sindona, freddò con quattro colpi di pistola l'avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca privata italiana (Bpi). Scrivendo, così, una delle pagine più dolorose e sconcertanti dell'Italia dei cosiddetti anni di piombo. A distanza di tanti anni da quell'omicidio, l'avvocato Umberto Ambrosoli, figlio 46enne del legale ucciso, ha ricordato, ieri mattina al teatro «Salus» di Legnago, la figura del padre, che pagò con la morte la sua determinazione nel voler far emergere le irregolarità dell'istituto bancario portato sull'orlo della bancarotta proprio da Sindona. Ambrosoli ha parlato ad una platea di 300 studenti degli istituti cittadini «Medici», «Silva-Ricci» e «Minghetti». Tutto ciò, nell'ambito del progetto sulla legalità promosso dal «Medici» di Porto in collaborazione con l'associazione veronese «Progetto Carcere 663 - Acta non Verba». Maurizio Ruzzenenti, presidente del sodalizio scaligero, e Marialuisa Mele, docente coordinatrice dell'iniziativa, hanno introdotto sul palco Ambrosoli, a pochi giorni dal 21 marzo, giornata della «Memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie». L'incontro-dibattito, a cui hanno collaborato anche il Centro servizi per il volontariato di Verona e la «Rete Cittadinanza Costituzione», è stato preceduto dalla proiezione del film «Un eroe borghese», pellicola con cui il regista e attore Michele Placido ha ripercorso le tappe della vita di Ambrosoli, morto a soli 45 anni. Il figlio Umberto, che all'epoca dell'omicidio del padre non aveva ancora compiuto otto anni, ha evidenziato: «Papà ha pagato con la vita la volontà di difendere il proprio operato e l'autonomia del mandato che gli era stato affidato dall'allora governatore della Banca d'Italia, Guido Carli, al punto tale da non temere più per la propria incolumità personale». «Anche se», ha aggiunto, «non appena la mole di impegni glielo permetteva, mio padre Giorgio cercava sempre di stare con la sua famiglia. Era rigido ma affettuoso, ed era capace di tenere fuori dalla porta di casa le innumerevoli tensioni che viveva quotidianamente sul lavoro». Il penalista ha anche ricordato un pesante atto intimidatorio che la dice lunga sull'atmosfera in cui, dal 1974 al 1979, si trovò a vivere il commissario liquidatore della Bpi. «Un giorno», ha annotato il figlio, «nel parcheggio sotterraneo della banca, papà trovò una pistola smontata accanto alla sua auto. Era una delle armi delle ex guardie giurate dell'istituto ed era custodita nella cassaforte di cui solo mio padre era convinto di possedere le chiavi». Terminato il dibattito, quindi, la manifestazione si è trasferita nel cortile dell'istituto «Medici», a Porto. Qui Ambrosoli, alla presenza di Stefano Minozzi, dirigente dell'istituto, Simone Pernechele, vicesindaco di Legnago, Ruzzenenti, Stefano GiuseppeGomiero, consigliere della Fondazione Cariverona, e degli studenti ha scoperto la targa con cui è stato dedicato a suo padre il «Melograno della legalità». Ovvero l'albero piantato lo scorso anno per onorare le vittime della mafia. Al taglio del nastro erano presenti esponenti delle forze dell'ordine operanti in città e gli Alpini del capoluogo. «La vicenda di mio padre», ha precisato Ambrosoli, «è un monito all'educazione alla libertà». «La vicenda di Ambrosoli», ha auspicato Pernechele, «deve essere conosciuta dai ragazzi di oggi, poiché permetterà loro di capire come comportarsi quando dovranno affrontare le scelte più importanti della loro vita». «Per il nostro istituto», ha aggiunto Minozzi, «libertà e legalità sono sinonimi. Per cui siamo onorati, a conclusione del percorso sulla legalità, di poter dedicare il nostro albero a Giorgio Ambrosoli».
IL PERSONAGGIO. Giorgio Ambrosoli, avvocato specializzato in diritto fallimentare, nacque a Milano il 17 ottobre 1933. Nel 1974 fu scelto da Guido Carli, all'epoca governatore della Banca d'Italia, come commissario liquidatore della Banca privata italiana (Bpi), istituto che era stato portato sull'orlo della bancarotta dal faccendiere siciliano Michele Sindona. Proprio durante le indagini sul crack della Bpi, Ambrosoli scoprì i conti falsati dell'istituto e, soprattutto, i rapporti consolidati di Sindona con una parte del mondo politico, della finanza e con la criminalità organizzata siciliana. A questo punto, l'avvocato milanese cominciò a ricevere pensanti pressioni affinché evitasse l'arresto di Sindona. Ben presto arrivarono anche esplicite minacce di morte. Il 12 luglio 1979, Ambrosoli avrebbe dovuto firmare la dichiarazione formale con la quale confermava la necessità di liquidare la Bpi, attribuendone la responsabilità a Sindona. Tuttavia, la sera precedente, l'avvocato fu ucciso sotto casa con quattro colpi di Magnum 357 esplosi dall'italoamericano William Joseph Aricò, un sicario della mafia ingaggiato dallo stesso banchiere. Condannato nel 1980 in America, fu estradato in Italia nel 1986. Il 18 marzo di quell'anno, a Milano, fu condannato all'ergastolo per l'omicidio di Ambrosoli. Due giorni dopo, però, il faccendiere fu trovato senza vita nella sua cella del carcere di Voghera (Pavia), avvelenato da un caffè al cianuro di potassio.
Fabio Tomelleri, L'Arena, martedì 27 marzo 2018 PROVINCIA, pagina 34